Articolo sull'impegno e contro la propaganda sionista

U n clichè dell'informazione "political correct" è dato dal presentare Israele quale Stato quasi inerme minacciato da un mare arabo-islamico, estremamente più esteso, che cerca di annientarlo. A parte il fatto che già in epoca anteriore al primo conflitto arabo-israeliano gli ebrei avevano molte più armi degli Stati arabi vicini, e che tutt'ora Tel Aviv ha un arsenale nucleare che si rifiuta di smantellare e di regolarizzare (non ha aderito al Trattato di non proliferazione nucleare), c'è da tenere presente che Israele neppure può sopravvivere economicamente senza gli aiuti statunitensi. Questa situazione risulta anche dal Congressional Research Service, il centro studi del Congresso.

Gli aiuti militari, che dalla metà circa degli anni '60 erano circa la metà del totale, già dal 1971 divennero il 75% del totale, specie indirizzati al sistema missilistico Arrow ed alla serie di carri armati Merkava. Queste condizioni sono estremamente vantaggiose per lo Stato israelita, dato che, dal 1982 per gli aiuti civili, e dal 1990 per gli aiuti militari, i fondi annuali sono trasferiti sempre in una sola volta e non a rate trimestrali, a differenza che per gli altri Paesi. Infatti, il governo di Washington ha dovuto pagare gli interessi sul denaro preso in prestito per fare un unico pagamento, per 50/60 milioni di dollari l'anno, mentre Israele guadagna interessi attorno agli 80 milioni di dollari ogni anno. Del resto, dal 1949 agli inizi del XXI secolo, Israele ha ricevuto circa 90 miliardi di dollari in aiuti a stelle e strisce. A questi, vanno aggiunte altre cifre, tra cui quelle ingentissime versate dalla Germania per risarcire gli interessi ebraici per la questione della Seconda Guerra Mondiale. Naturalmente a questi aiuti va aggiunta la macchina propagandistica di americani ed alleati, tesa a portare l'immagine dello Stato ebraico al rango di vittima per eccellenza, che il "grande cuore" degli abitanti dell'America preserva dalla distruzione, e con analogia con l'occupazione del West da parte dei coloni anglosassoni.... Tuttavia il velo di questa intensa propaganda sempre più spesso viene sollevato, e la verità dietro il muro delle mistificazioni a volte si affaccia negli ambienti politici più diversi: a questo proposito, si può ricordare la dichiarazione, nel 2003, dell'ambasciatore francese a Tel Aviv, Gèrard Araud, che, resosi conto da un soggiorno in quella terra della drammatica situazione, definì Sharon una canaglia, ed i suoi connazionali paranoici. Passando all'Italia, sempre più diffusa è la consapevolezza della mostruosità delle politiche sioniste, e non mancano le manifestazioni in solidarietà con il popolo palestinese oppresso e diseredato: tra queste, una tra le più significative e fiore all'occhiello per gli antisionisti più convinti, è stata la contestazione dell'ambasciatore israeliano, Ehud Gol, all'Università di Firenze, martedì 22 febbraio.

Ariel Sharon

L'ambasciatore ha apostrofato con arroganza i manifestanti con queste parole: "Siete tutti terroristi come Arafat". Naturalmente il conformismo ed il servilismo hanno portato molte attestazioni di solidarietà a Gol, mentre Amos Luzzatto, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche in Italia, ha dichiarato, a proposito del gesto dei giovani contestatori fiorentini: "Sono metodi fascisti, che non si possono proprio qualificare di sinistra". Eppure, la radice della manifestazione viene proprio dal mondo della sinistra antagonista: e non si può non condividere l'atto di quegli studenti e studentesse che hanno manifestato i propri ideali portando anche una bandiera della Palestina. Tutto questo in confronto a chi è complice moralmente, a chi rimane inerte, ed ai casi di chi, a volte anche in certi ambienti di destra alternativa, si limita alle belle parole. A proposito dell'importanza del fare seguire i fatti alle enunciazioni di principio, è istruttivo ricordare le parole del giornalista e poeta palestinese mussulmano druso Samih Al Qasim, che nella sua composizione "Musk al-Khitam" ("Tocco finale") cantò: "[...] E' già troppo che aspettate/ Nessun postino bussa alla porta per portarvi da oltre lo steccato le lettere che aspettate. / Dico a voi uomini! / A voi donne! / Non aspettate più, non aspettate/ Scrollatevi di dosso il sonno e scrivete voi le lettere che aspettate". Questo appello simbolico, nel quale si esorta in sostanza a dire ciò che si vorrebbe ascoltare, a fare ciò che si vorrebbe accadesse, senza aspettare sempre l'iniziativa altrui e senza ritirarsi in modo nichilistico nel privato, è particolarmente attuale. E' infatti anche una forma di altruismo e di allargamento dei propri orizzonti l'occuparsi ed il preoccuparsi anche di chi non si conosce personalmente, delle cose del mondo, che è comunque uno.... Tutto ciò vale a maggior ragione in questo difficile periodo storico, nel quale ad esempio possono trovare spazio queste deliranti parole: "Questa è una lotta tra seguaci del Dio vero contro l'idolatria mussulmana. Dio ha voluto Bush alla Casa Bianca, il vero nemico della nostra causa è Satana, poichè quello dei mussulmani non è il vero Dio" (si tratta di una dichiarazione del 2003 del generale William Boykin, vice-sottosegretario alla difesa dello spionaggio offensivo degli USA). Questa infondata e fanatica dichiarazione di Boykin è avvenuta inoltre in un periodo nel quale gli atlantici ed i loro alleati hanno allargato il proprio raggio d'azione, mentre la dirigenza palestinese capeggiata da Abu Mazen è particolarmente inerte, e quasi tocca il collaborazionismo: situazione particolarmente gradita ad Israele, che ha sempre voluto fare condurre ai palestinesi trattative in ginocchio. Il governo dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha l'attenuante di agire sotto continue minacce, ma sarebbe certo più saggio prendere tempo piuttosto che cercare accordi scadenti sotto Sharon e Bush. Quali sono allora le reali prospettive del movimento di liberazione palestinese, quali i gruppi sui quali si possa contare? E come si deve interpretare la dichiarazione di Hamas che si possa ripartire alla ricerca dell'indipendenza prendendo in considerazione i confini del 1967? In realtà non si tratta di una rinuncia ad uno Stato palestinese su tutta la Palestina storica, specifica lo stesso attuale leader del movimento, Khaled Mashaal, ma del considerare uno Stato palestinese in Cisgiordania e Striscia di Gaza una prima tappa verso un unico Stato senza discriminazione su tutta la Palestina storica, che è progetto tutt'ora fatto proprio dai sentimenti più profondi della stragrande maggioranza del popolo palestinese. In questo senso la dichiarazione di Mashaal non è una novità assoluta, ma la riaffermazione di un progetto nazionalista gradualista già proprio dei leaders martirizzati Ahmed Yassin ed Abdelaziz Al Rantissi. Questo è il progetto di tutti i gruppi palestinesi radicali, religiosi e laici. Tra questi particolarmente difficile e coraggiosa la posizione di Abnaà al Balad ("Figli della terra"), organizzazione di palestinesi che, dall'interno dei confini dello Stato sionista, non riconosce ad Israele la legittimità di Stato. Di questo impegno c'è una necessità particolarmente intensa, nel momento in cui, addirittura, il Pentagono ha da poco richiesto alle autorità militari israeliane un rapporto che elenchi le istruzioni di "buona condotta" dell'esercito con la stella di David nei territori palestinesi. Insomma, è proprio il caso di dire tristemente che in certi ambienti si vada direttamente di male in peggio, quando gli autori di un'occupazione pluridecennale e crudelissima vengono presi ingiustamente a modello di fair play e di buona educazione... [Questo articolo è stato pubblicato sui seguenti giornali: Avanguardia, Rinascita, il Quotidiano di Caserta, L'Altra Voce, Ciaoeuropa]



Antonella Ricciardi