Intervista a Stefano Surace

Il giornalista italiano Stefano Surace

Stefano Surace, giornalista, scrittore, maestro dell'arte marziale di origine giapponese Ju-Jitsu, in questa intervista parla di alcuni nodi cruciali per la cultura non solo italiana. Esprimendovi anche la sua visione del giornalismo, molto diversa da quella, per esempio, dei colleghi Indro Montanelli ed Enzo Biagi.

E come maestro di arti marziali ha tenuto ad evidenziare lo spirito più autentico del Ju-Jitsu.

Fra l’altro si è molto occupato del tema della giustizia, che lo vede artefice da decenni di inchieste molto approfondite. Negli anni 70, per esempio gli riuscì l’exploit di farsi incarcerare volontariamente ben 19 volte, per brevi periodi, in 8 diverse carceri, per poter constatare di persona le condizioni delle prigioni italiane (tra queste anche l'Opg di Aversa).

Famoso il mezzo che usò per riuscire in questa impresa ritenuta “impossibile”: assunse la carica di direttore responsabile del settimanale Le Ore e di altre pubblicazioni di un erotismo assai blando (come sottolineato anche dal quotidiano francese Le Monde) ma che all’epoca induceva varie Procure ad emettere ordini di cattura che Surace utilizzava puntualmente per entrare quando voleva per pochi giorni nelle carceri che gli interessavano.

In quelle sue inchieste svelava fra l’altro gli abusi di vari personaggi e oligarchie ai danni dei cittadini, e diversi retroscena come quelli relativi al caso Andreotti, di cui aveva sostenuto fin dall’inizio in un suo libro, contro l’opinione generale, l’estraneità al delitto Pecorelli, poi confermata dalla magistratura.

Questa sua attività suscitò nella magistratura una specie di dicotomia, nei suoi riguardi.

Mentre alcuni magistrati non nascondevano la loro ammirazione per le sue attività che definivano “di alto valore civile e sociale”, anche nelle sentenze che lo riguardavano, altri invece non sembravano che sognare di metterlo in galera fino alla fine dei suoi giorni...

Così quando, seguendo la sua carriera di giornalista e di sportivo si trasferì a Parigi, certi tribunali italiani credettero bene di lanciargli, in sua assenza, una serie di condanne per presunti reati a mezzo stampa per un totale di oltre... 18 anni di galera, definitive ed esecutive, facendogli conseguire il record mondiale (almeno del mondo occidentale) per condanne ricevute per quel tipo di reati.

Quando tuttavia se ne chiese alla Francia l’estradizione, l’Italia ricevette un netto rifiuto, le autorità d’Oltralpe avendo ritenuto quelle condanne tutte inattendibili, ed anzi coprendo Surace di onori : fra l’altro Chirac lo decorò “per i suoi meriti di giornalista, scrittore, maestro di arti marziali di rinomanza internazionale, formatore dei giovani e creatore di campioni”.

Comunque in seguito anche in Italia quelle condanne furono spazzate via da altri magistrati.

Surace viveva dunque ormai a Parigi da quasi trent’anni, circondato dalla generale stima, quando, nel 2001, si recò in Italia poiché la madre 92enne, che abitava a Napoli, gli chiedeva di occuparsi di alcune pratiche che ella, data l’età, non era più in grado di seguire.

Ma a Napoli venne arrestato in esecuzione di una condanna per traffico di droga che tuttavia, in realtà, non era mai stata emessa...

Venuto fuori l’ “errore”, si cercò di trattenerlo comunque in carcere adducendo condanne per suoi articoli pubblicati circa 40 anni prima…

Ma tutto ciò suscitò la reazione massiccia della stampa italiana e internazionale, fra cui i quotidiani francesi “Le Monde” (in prima pagina) e “Le Figaro”, il britannico “Guardian” (che definì “kafkiano” il suo caso, nonché come un “affare Dreyfus all’italiana”) dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, della Federazione della stampa, del movimento per i diritti civili di Corbelli, di deputati e senatori dei più diversi partiti - dall’estrema destra all’estrema sinistra - di intellettuali di ogni orientamento politico.

Il Presidente della repubblica Ciampi si dichiarò pronto ad emettere un provvedimento di grazia e il capo del Governo Berlusconi sollecitò il ministro della giustizia a promuoverne l’iter ma Surace rifiutò gentilmente, non essendo grazie che preferiva, ma giustizia.

E così, sull’onda di questa mobilitazione a suo favore si dovette farlo uscire dal carcere.

Siccome però si era creduto bene di sostituire la galera con una specie di detenzione domiciliare che riteneva del tutto al di fuori da qualsiasi criterio giuridico, dapprima pubblicò una serie di articoli su vari quotidiani e rilasciò diverse interviste, dopodiché eluse ogni “strettissima sorveglianza” e se ne partì tranquillamente per Parigi dove ancora una volta le autorità francesi respinsero ogni richiesta di estradizione.

In una conferenza stampa organizzata al suo arrivo in suo onore da Reporters sans Frontières Surace illustrò, dinanzi ai rappresentanti della stampa mondiale, lo stato della giustizia e della libertà di stampa in Italia.

Sicchè certa magistratura italiana si trovò coperta di discredito di fronte all’opinione pubblica internazionale, discredito di cui subisce ancora le pesanti conseguenze.

Una settimana dopo questa conferenza di Surace, « Reporters sans Frontières » classificò, quanto a libertà di stampa, l’Italia – fino a quel momento ritenuta un Paese dalle istituzioni correttamente democratiche - al 40° posto nel mondo dietro Benin, Bulgaria ed Ecuador, basandosi esplicitamente su quanto da lui rivelato.

E l’anno dopo, al 53° posto dietro Ghana, Bosnia-Erzegovina e Bolivia.

Attualmente Surace, anche come presidente dell’”Observatoire Européen pour la Justice et la liberté de presse”, segue con interesse l’evoluzione di certe situazioni in Italia.

D.) Nel corso della sua lunga carriera giornalistica lei ha spesso assunto posizioni fuori dal coro, non di rado divenute poi condivise da ampie maggioranze. In diverse occasioni in particolare ha criticato l'operato dei famosi colleghi Enzo Biagi ed Indro Montanelli, di solito incensati dai mass media : può spiegare i motivi che l'hanno spinta ad arrivare a queste conclusioni su quei giornalisti?


R.) Mi limiterò a rispondere con poche parole: come Eduardo Scarfoglio fu definito a suo tempo “una penna d'oro intinta nel fango”, così Montanelli lo definirei una penna magari non proprio d'oro, diciamo d'argento, intinta nella manipolazione.

Il suo criterio, come del resto quello di Enzo Biagi, era di apparire come qualcuno che critica i potenti, mentre in realtà ne faceva gli interessi.

Il che aveva per lui un doppio vantaggio, e di peso : da un lato gli faceva evitare la sorte di altri giornalisti che invece certi poteri li avevano combattuti davvero... Basti pensare a Gaetano Baldacci, a Giovanni Guareschi e ai pesanti inconvenienti che gliene derivarono.

E d’altro canto ciò gli assicurava una carriera piena di onori, anche se al prezzo di venir meno al dovere fondamentale del giornalista, che giustifica la libertà di stampa : quello di informare correttamente i cittadini su ogni questione d’interesse pubblico.

D’altronde sembrava che l’impulso a manipolare le situazioni fosse proprio più forte di lui, quasi che provasse una gratificazione speciale nel riuscire a far credere alla gente il contrario di come stavano le cose... Doveva sentirsene molto valorizzato, come del resto Biagi.

Questa sua tendenza irresistibile alla manipolazione la si nota anche nei suoi libri su soggetti storici, di cui mi è capitato di leggerne un paio.

A conferma dei suoi ottimi rapporti con il potere, ogni tanto a Montanelli sfuggiva qualche frase rivelatrice: come quando scrisse che le estati le passava sempre invitato negli yacht di grossi personaggi... Uno che attaccava davvero i poteri non sarebbe stato invitato così facilmente e costantemente negli yacht...

Montanelli insomma si appoggiava a tutti i potentati del momento: quando un potentato non era più tale, passava al potentato di turno. Per esempio, si atteggiava ad anticomunista ma a un certo punto...


D.) Già, dopo ci fu un'aspra rottura con Berlusconi, che l’aveva finanziato per anni: in che modo se la spiega?


R.) Col fatto che a un certo punto ebbe la sensazione che il potere reale in Italia si fosse esteso in buona parte ai postcomunisti grazie ad una specie di alleanza che si era consolidata tra certi industriali ed una parte della sinistra in funzione anti-Berlusconi.

Nelle previsioni di Montanelli, grazie a quell’alleanza Berlusconi era già cotto. Solo che in realtà ad essere cotto prima fu lui, col fallimento del nuovo quotidiano che aveva messo in piedi.


D.) Lei è noto, tra l'altro, anche per avere spiegato in un libro le ragioni dell'innocenza di Andreotti riguardo al delitto Pecorelli, poi confermata dalla magistratura: può illustrare il perchè di quella sua posizione già all'epoca?


R.) Io sapevo per certo che per il delitto Pecorelli tutti gli elementi portavano in una direzione ben diversa da Andreotti.

Pecorelli infatti mi aveva contattato quando ero già in Francia, sul fatto che all’epoca approfittando della mia assenza dall’Italia, certi magistrati avevano avuto la buona idea di lanciarmi condanne per pretesi reati a mezzo stampa per la bellezza di 19 anni di galera...

Dopodiché avevano chiesto la mia estradizione in Italia alle autorità francesi che però respinsero la richiesta, anche abbastanza rudemente, senza darmi nessuna noia, senza neppure invitarmi a comparire per interrogarmi, niente...

Avevano infatti subito ritenuto inattendibili quelle condanne.

Fu un vero smacco a livello internazionale per quelle “autorità” italiane... e purtroppo anche per l’Italia.

D.) Anche perchè quelle condanne erano state emesse in contumacia?


R.) Certo, e per il fatto che, nonostante ciò, erano state dichiarate in Italia definitive ed esecutive. Cosa che per il diritto, ed in particolare per il diritto francese, non è ammissibile. Se si emette una condanna in assenza dell'imputato, nel caso che poi costui si presenti spontaneamente o sia catturato, si deve rifare il processo in sua presenza: si tratta di un principio fondamentale del diritto, valido in tutti i Paesi occidentali... ma non in Italia.

E non a caso, trattandosi di un mezzo particolarmente agevole per realizzare abusi colossali. Basti dire che nelle carceri italiane ci sono oltre 5000 persone che vi sono tenute abusivamente a seguito di condanne “definitive ed esecutive” senza che mai abbiano visto i giudici che li hanno « condannati »...

Ciò contro ogni principio del diritto, e malgrado il biasimo e il disprezzo manifestato costantemente dalle magistrature di tutti i paesi occidentali nei confronti della « giustizia » italiana a causa di questo fenomeno, e le continue condanne all’Italia emesse al riguardo della Corte europea dei diritti dell’uomo.

E il bello è che la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione italiane hanno sancito nel 1993, con sentenze molto chiare, che la Convenzione europea dei diritti dell'uomo deve considerarsi integralmente legge italiana, che per di più prevale su qualsiasi altra norma italiana che ne sia in contrasto, anche se emessa successivamente.

E inoltre che i tribunali italiani, nell’applicarla, devono attenersi alle interpretazioni che ne dà la Corte europea di Strasburgo .

Ebbene, malgrado ciò, si assiste al fenomeno che i tribunali italiani se ne infischiano totalmente del dettato di quelle Corti Supreme, continuando tranquillamente a dichiarare « definitive ed esecutive » condanne emesse in contumacia.


D.) Dunque Pecorelli la contattò. E che successe ?

Siccome il mio caso confermava che qualcosa non andava nella giustizia italiana, mi domandò dunque se avevo altri elementi su questo problema.

Gli mandai allora del materiale che dimostrava come certi magistrati di Monza (il procuratore capo, il suo vice, e il presidente del tribunale) favorivano dei giri illeciti su larga scala come la pornografia “hard” e certi petrolieri grossi evasori fiscali.

E Pecorelli preparò, in base al mio materiale, una campagna su come funziona certa giustizia nel Bel Paese. Partiva appunto dal mio caso, che era lampante, con un articolo di ben 8 pagine sul suo settimanale OP intitolato esplicitamente "Scandalo a Palazzo di Giustizia" in cui accusava fra l’altro quei magistrati di Monza di favorire il giro della pornografia hard.

D.) Si trattava di un giro di pornografia pesante, di tipo malavitoso?


R.) Malavitoso o no, era comunque illegale, e la posizione di quei magistrati si trovava fortemente compromessa.

Pecorelli tuttavia non sapeva che proprio il suo distributore, la Dipress di Milano (con cui aveva preso accordi solo da qualche settimana avendo rotto col precedente, Parrini di Roma) era proprio uno dei boss della pornografia hard....

Così, quando gli mandò quel numero con l’articolo “Scandalo a Palazzo di Giustizia”, il distributore rifiutò di distribuirlo, ponendo come condizione a Pecorelli per distribuire quel numero, che lo ristampasse togliendo quell'articolo.

Pecorelli “obtorto collo”, non avendo altra scelta sul momento, stette in apparenza al gioco, ristampando senza l’articolo il numero, che così venne distribuito. Intanto però si accordò con un altro distributore, e inserì l'articolo “Scandalo a Palazzo di giustizia” nel primo numero che doveva essere diffuso da questo.

Ma quel nuovo numero con l’articolo che “non s’aveva a pubblicare” non venne mai distribuito, per la semplice ragione che Pecorelli fu tempestivamente ucciso da un killer .


D.) Quindi per lei ci fu una istantanea reazione di causa-effetto, in quel marzo 1979?


R.) Sono i fatti che lo dicono... Così rilasciai subito delle dichiarazioni in tal senso al Corriere della Sera indicando quella traccia precisa. Che tuttavia ci si guardò bene dal seguire, dirigendo invece tutto su Andreotti.


D.) Ma lei ha idea di chi potesse essere interessato a colpire Andreotti?


R.) Beh chi indirizzò tutto l’affare su Andreotti fu, com’è noto, quel magistrato poi divenuto deputato, Luciano Violante, che in tal modo otteneva due scopi: coprire i suoi colleghi di Monza evitando un grosso scandalo alla magistratura, e nello stesso tempo colpire un nemico politico.

Quei magistrati di Monza comunque non poterono evitare noie per altre ragioni, sempre a seguito di una mia inchiesta, in cui misi in luce che avevano appunto favorito dei petrolieri grossi evasori fiscali.

Dei carabinieri di Monza avevano infatti trovato dei documenti provanti che quei petrolieri riuscivano ad eludere il fisco con la complicità di alcuni grossi capi della Guardia di Finanza, facendo figurare falsamente il gasolio per carburante come gasolio per uso domestico, molto meno tassato, realizzando così evasioni miliardarie.

Avevano allora passato quei documenti alla Procura di Monza, competente per territorio, che a sua volta avrebbe dovuto incriminare questi petrolieri e chi li favoriva. Ma quei magistrati li avevano scagionati, facendoli passare addirittura per vittime…

Io feci allora un'inchiesta su questa faccenda, e la Procura di Milano intervenne incriminando quei giudici di Monza per favoreggiamento di questi petrolieri.

Scoppiò così il famoso scandalo dei petroli che fece molto scalpore anche perché vi furono processarti e condannati il capo supremo della Guardia di Finanza, il suo braccio destro e l'ex braccio destro di Moro.

Quanto a quei magistrati di Monza, ci fu una lunga e tormentata istruttoria a loro carico che passò dapprima a Torino e poi a Brescia, competente per i reati dei giudici operanti nella circoscrizione di Milano, che comprendeva anche Monza.

Ebbene i magistrati di Brescia accertarono che i loro colleghi di Monza avevano effettivamente commesso i fatti di erano accusati, ma ebbero l’amabilità di scagionali affermando che li avevano commessi, sì, ma per... “mera sprovvedutezza” (testuale).

Così poterono cavarsela, col solo danno di dover rinunciare a ogni ambizione di carriera, e si evitò che anche la magistratura risultasse coinvolta in quel clamoroso scandalo.


D.) Signor Surace, un suo interesse costante è stato quello della salvaguardia dei diritti umani, anche nelle carceri. Ultimamente ha dichiarato che ci sono ragioni per cui un'amnistia in Italia sarebbe non una concessione ma un atto dovuto: può spiegare le motivazioni di questa sua posizione?


R.) Il fatto è che l’Italia si trova in una situazione di assoluta illegalità nei riguardi dei detenuti. Certo i detenuti si trovano in carcere perchè si ritiene che abbiano violato la legge, ma il paradosso è che innanzitutto a violare la legge e la Costituzione è proprio lo Stato italiano, visto che sottopone i cittadini che si trovano nelle carceri a pene in realtà ben più pesanti di quelle permesse dalla legge e dalla Costituzione.

Queste infatti impongono che le pene devono essere eseguite in condizioni tali da favorire il reinserimento del detenuto nella società, e che dunque innanzitutto non calpestino la dignità umana.

Sicché si potrebbe dire che scontare una pena nelle condizioni attuali è in realtà come scontarne illegalmente il doppio.

Per cui abbreviarla non è un concessione ma un dovere di giustizia, di equità. E l'unico modo per abbreviarla nelle condizioni attuali è appunto l’amnistia, visto che è evidentemente impossibile adeguare in tempi brevi le condizioni nelle carceri.

A causa della suddetta situazione, lo Stato italiano è esposto ad essere accusato davanti ad un Tribunale Internazionale, ma paradossalmente nessuno lo faceva. Erano in tanti a parlare di amnistia, di “ battersi per carceri umane”, ma non toccavano questo punto.

L’ho allora toccato io con vari articoli e dichiarazioni alla stampa, e ho visto che in seguito se ne è fatto eco due o tre volte Pannella il quale, mettendo da parte il suo solito, confuso, bla bla, è stato per una volta chiaro, affermando che (cito testualmente) « il comportamento criminale dello Stato italiano diventa da tribunale penale internazionale e l’Italia resta in una situazione di flagrante criminalità. C’è un dovere, un obbligo di interrompere questo reato ».

Solo che ha subito dopo dimenticato di passare dalle parole ai fatti, e cioè denunciare certe “autorità” italiane davanti a un tribunale internazionale.

Vero che fra il dire e il fare...

In seguito perfino il cardinale Martino, che presiede il Consiglio vaticano di giustizia e pace, ha dichiarato a proposito dell’amnistia, su incarico del Papa (cito ancora testualmente) : « Una cosa è la pena secondo giustizia, e un’altra è una pena che viola i diritti. La pena è privazione della libertà e dal legislatore è concepita come riabilitativa. Ma se è scontata in condizioni disumane, coma avviene in Italia, alla privazione della libertà si accompagna ogni possibile vessazione. Invece di fare riabilitazione si scatena la ferocia ».

Più chiaro di così... Eppur nessun si muove.

D.) Ma, allo stato, quali reali possibilità potranno esserci per una eventuale emissione di un tale provvedimento?

Bah, temo che prima si dovrebbe tornare al criterio del 50 per cento più uno dei voti parlamentari per approvarla, in luogo dello sciagurato 75 per cento che lo ha reso quasi impossibile, poiché ha messo il provvedimento dell’amnistia nelle mani di una minoranza di personaggi forcaioli (nei confronti degli altri) che hanno tutti i requisiti per andare essi in galera, come complici di una situazione giudiziario-carceraria pesantemente illecita che costituisce semplicemente un crimine contro l’umanità.

Un'azione penale davanti ad un Tribunale internazionale era una cosa che bisognava fare da tempo. Vero che se ne comincia a parlare, tuttavia non ci si decide ancora a farlo...

D.) Ultimamente, mentre era ancora al governo la CdL, un progetto era stato bloccato in particolare dall'opposizione di Gianfranco Fini e della Lega Nord... Che ne pensa?


R.) Già, ma anche da parte di una componente della sinistra, basti pensare ad Anna Finocchiaro... Componente che è stata determinante visto che lo scorso gennaio l’amnistia non è stata approvata per soli quattro voti.


D.) Lei dirige anche una reputata scuola dell'arte marziale Ju-Jitsu, per cui è famoso anche in quanto sportivo... il Ju-Jitsu non è solo una pratica atletica, ma ha dietro di sè anche una antica sua filosofia di vita: può illustrare in cosa consistano i suoi tratti essenziali, compresa l'origine dello stesso Ju-Jitsu?


R.) Il Ju-Jitsu non è un'attività sportiva, è una disciplina marziale, bisogna fare differenza.

Ha infatti lo scopo di mettere in grado una persona di difendersi da attacchi fisici anche da parte di una o più persone che non pongano limiti alla propria violenza, ed usa quindi delle tecniche molto sofisticate che vengono dal Giappone feudale, ma sono di stretta attualità anche per le esigenze del mondo moderno.

Bisogna comunque fare attenzione, perchè purtroppo si sono diffuse, sotto il nome di Ju-Jitsu, delle pratiche in realtà sportive, con regolamenti, proibizioni... Per cui il termine Ju-Jitsu è utilizzato, a volte, non correttamente.


D.) E' allora una vera e propria tecnica di combattimento ?


R.) Sì, di combattimento reale. Evidentemente, ad un certo livello, il Ju-Jitsu non solo permette di difendersi, ma di farlo senza ferire gravemente l'avversario.


D.) Cioè bloccare la persona senza ucciderla, senza danneggiarla in modo grave, giusto?


R.) Sì, e questo è anche molto pratico nel mondo d’oggi, perchè evita fra l’altro la possibilità di conseguenze giudiziarie.

Se infatti uno ferisce gravemente o al limite uccide, dovrà poi risponderne in giustizia, e non sempre è facile dimostrare che ci si era in uno stato di legittima difesa, poiché o non c’erano testimoni, o i testimoni si sono “squagliati” o peggio sono legati all’aggressore oppure disonesti... In ogni caso si è in balìa di testimoni non sempre affidabili.

Per cui essere in grado di bloccare senza ferire mette al riparo anche da queste spiacevoli eventualità.

Certo questo criterio di neutralizzare, senza causargli danni seri, anche un aggressore che abbia intenzione di uccidere, è già in sé un concetto filosofico profondo che va ben al di là dello stesso criterio giuridico di legittima difesa.

Le arti marziali giapponesi a un certo livello hanno infatti un codice, il “bushido” le cui principali regole sono amore della verità, coraggio fino in fondo e benevolenza verso l'umanità.

Certo bisogna avere i mezzi per poterlo applicare, e il ju-jitsu autentico ne dà di particolarmente efficaci...

D). Pensa che questo codice etico abbia potuto influenzare anche la sua vita, viste pure le battaglie particolarmente rischiose che lei ha continuamente affrontato ?

R.) Beh, quando uno è stato formato fin dall’infanzia a certi concetti, non può non esserne influenzato anche per il resto della propria vita...


D.) C'è una sorta di compassione di fondo, quindi, in questa pratica?


R.) Si tratta di benevolenza, di un atteggiamento a priori non ostile anche verso un avversario accanito, che comunque è sempre un essere umano. Naturalmente finchè ciò è possibile.

Poichè se ci si trova per esempio aggrediti da più energumeni armati di coltelli o cose del genere, non si potrà fare a meno di usare altri criteri, non esitando ad agire, per esempio, con tecniche agenti sui loro punti vitali.

D.) Si sa che lei si trova molto bene a Parigi. Ma non vi si sente un po’ in esilio?

Esilio? Niente affatto. A Parigi ci venni a suo tempo volontariamente, e ci sono come a casa mia. Anzi, se permette, infinitamente meglio che in quella che dovrebbe essere casa mia, cioè l’Italia.

A Parigi mi hanno colmato di onori proprio quando in Italia si faceva di tutto per... “catturarmi”.
Comunque non ho dimenticato l’Italia e le infinite battaglie che vi ho fatto per migliorarne certi aspetti degradanti per un popolo di altissima civiltà quale è l’italiano. Naturalmente ci vado quando voglio, non riconoscendo a nessuno il diritto di impedirmi arbitrariamente di metter piede nella terra in cui sono nato, e per la quale mi sono tanto battuto per decenni.

Per esempio nel 1994, quando c’erano ancora in piedi quelle volenterose condanne abusive per 18 anni di galera, ho arbitrato per due giorni interi, al Palasport di Rimini, le semifinali e la finale della Coppa del mondo WBI di Ju-Jitsu, davanti a 10.000 spettatori e alle telecamere.

Vero che c’erano con me i miei fedeli assistenti francesi e italiani, tutti campioni di Ju Jitsu, e che quei diecimila spettatori erano tutti praticanti di arti marziali...

Sicché se si fosse provato ad arrestarmi non sarebbe bastato un battaglione di poliziotti. Tanto più che i poliziotti e i carabinieri sono essi stessi in buona parte praticanti di arti marziali, e non sarebbe stato facile spingerli a tentare di arrestare un maestro modestamente stimato e benvoluto nel mondo intero.

Comunque se in uno dei miei soggiorni in Italia ci si prova a ricadere nel vizietto di arrestarmi, tanto peggio per chi ci prova. Si è già visto cosa è successo quando ci si è provato.

[Questo articolo è stato pubblicato sui giornali Deasport, Corriere di Aversa e Giugliano, Caserta24ore, L'Altra Voce, e sull'agenzia giornalistica Abc-Flash Paris]



Antonella Ricciardi , 2-3 luglio 2006